La testimonianza di un noto pittore di Elio Pelizzatti.

Per un pittore come me, nato a Sondrio, la conoscenza di Livio Benetti era un fatto naturale, lui abitava alla Masegra e io in via Fracaiolo. Questa appartenenza alla Sondrio antica in qualche modo ci univa. Livio Benetti è stato per i pittori della mia generazione un sicuro riferimento di esperienza, cultura, ma sopratutto umanità. In un ambiente come quello sondriese, sempre avaro o addirittura restio alle cose dell'arte, la sua applicazione tecnica ed intellettuale (egli ha praticato indistintamente la scultura, la pittura, l'acquerello, l'affresco) era motivo di rispetto e di ammirazione. Le mie erano poi anche frequentazioni nella sua Galleria studio di via Cesare Battisti dove si parlava d'arte in modo stimolante; ricordo i suoi modi pacati e gentili, i suoi giudizi su fatti e persone dell'ambiente artistico valtellinese erano sempre improntati all'obiettività. Verso gli inizi degli anni ottanta i miei incontri con Benetti ebbero un'intensificazione negli ambienti del Torchio in via Parravicini. Attorno a questo strumento ottocentesco, in mezzo a carte e inchiostri, cere e trementine, nel silenzio di questi ambienti antichi, si era instaurato un rapporto di comune sperimentazione fatto di entusiasmi ed attese. Livio Benetti non faceva pesare la differenza di età e di consolidata fama, l'entusiasmo che ci univa nello sperimentare le tecniche dell'incisione (l'unico che nella sua lunga carriera non aveva mai praticato) e i suoi modi cortesi annullavano queste distanze. Grande disegnatore, gli veniva naturale incidere nella lastra, istintivamente si impossessò di questa complessa tecnica. Ricordo ancora la sua emozione quando lo stampatore alzò delicatamente il foglio umido dal torchio, l'incisione era perfetta nei suoi chiaro-scuri e nel suo segno inconfondibile, un segno fatto di linee brevi ed avvolgenti che aveva una forte capacità di sintesi.

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