1945: incontro con Livio Benetti di Ferruccio Scala. |
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![]() Dalla piccola città, che era scivolata densa di troppe sicurezze, dal contorno sinuoso dei "Crap" primordiali, al centro della pianura, la gente era risalita a monte; pressata dai pericoli della guerra, aveva compiuto un esodo in salita, in sintonia millenaria coi viaggi archetipi. Chi giunse a Gualtieri, Cagnoletti e chi, più brevemente, nelle frazioni-madre della minuscola città. La gente, sloggiata dalle case, in blocco, per interi quartieri, dalle truppe tedesche occupanti. Gelidamente occupanti. Col tappo dei cavalli di frisia. Nacque un nuovo modo di vivere, in caotico assembramento. Le famiglie coagularono sino alla quarta generazione. Sommammo strati di fame. Andai ad abitare in via Baiacca n°16 dai nonni. La via assunse l'aspetto di un minuscolo paese. La piazza centrale era lo slargo, con vecchissimo gelso e, la cappella, in cima alla roccia, di una Madonna. Sul piazzale arrivò, un giorno tiepido di fine febbraio, un signore anziano che installò il suo cavalletto e si mise a dipingere, ritraendo le vecchie case, i miseri panni stesi ad asciugare sotto le finestre. Fu circondato da una marea di bambini. Annusai I'odore dell'acquaragia e dissi: "Che buon odore! Lo mangerei col pane". Cosi come gia avevo detto del lucido per scarpe. Resistetti ai colpi del ridicolo, che gli altri bambini mi somministrarono. C'è appetito e poi c'è fame, ma ad un certo punto anch'essa termina fisicamente e, subentra la fantasia della fame che è qualcosa oltre. Cominci ad immaginare commestibile, qualsiasi cosa abbia un gradevole odore. T'accontenti d'annusare, profondamente. Ti sazi con gli odori. La mamma tolse dal filo stenditoio, la coperta verde Vizzola perchè, si scusò pudicamente col vecchio pittore Buzzi: "E' piena di pipi della mia piccolina" ed il vecchio: "La lasci! Nel quadro non si sente!" E nemmeno si vedeva, il liquido della sorellina di diciotto mesi, sul verde Vizzola. Rosa antico della casa e quella macchia di verde scuro. Come ho detto, odori e cibi, si erano staccati dalla loro nicchia di memoria e vagavano in completa anarchia, per aria. Bastava stendere la mano, acchiapparli, ed usarli come si voleva. Un uomo anziano che voglia ha di dipingere in quella fine inverno del '45? Normale nella sua anormalità. Non ci si meraviglia di nulla. Tutto a posto. Anche lui, estraneo al nostro micropaese. Quattro scalini alti, sistemati nella punta di roccia, per raggiungere la portina in volute di ferro e rete di protezione della cappella. Stavo seduto su quegli scalini, quando le due signorine mi vennero incontro. Anche loro avevano dipinto, come il vecchio, le case della Baiacca. Però, dopo uno sguardo d'intesa mi dissero: "Verresti alla Masegra, dal professore? Ti facciamo il ritratto!" Chiesi dove fosse quella misteriosa Masegra. Mi spiegarono e capii che distava poche decine di metri dalla mia aula scolastica, nell'ala nord della mensa operaia del cotonificio Fossati: sull'altro "Crap". Le scuole in pianura erano state chiuse e tre classi, una seconda, una terza ed una quinta funzionavano come accampamenti educativi, distanziate l'una dall'altra nel lungo (e accidentato da colonne di cemento) salone mensa, a forma di mezzaluna. Ormai, salendo il mattino, l'interminabile scalinata Ligari, riuscivo a respirare, senza avvertire acuti dolori nelle mucose delle narici, che avevano segnato il freddo polare dell'inverno ed i giorni di scuola. Un giorno sì e uno no, a giorni alterni, cosi funzionava, c'era stato quell'incubo di dolore al naso. Verso le undici del mattino, l'attenzione al dire della maestra Tognini, che dava di spalle alla luce della Masegra, cessava. Tutte le teste di noi bambini si giravano come banderuole da campanile, verso i piatti degli operai. Il cuoco serviva, prima della minestra, mezza salsiccia cotta. Mezza salsiccia, fredda, ferma, in attesa. Tirarono su le quinte di legno compensato. Ci chiusero in una cabina. Non vedemmo oltre. Non ci "distraemmo" più. E allora, salire alla Masegra fu un gioco. Fosse stato ancora freddo ed al pensiero di dover subire quel dolore acuto al naso, per una sola volta in più, non avrei accettato. Le "signorine" m'attendevano sorridenti, davanti ad un grande cancello. Poi il viale, un lungo viale silenzioso, curva a destra e, il ricordo è l'entrata in un locale, molto vetrato su un lato e silenzio e luce morbida. Le signorine incontrarono il professore e si misero a parlare titto fitto e lui ascoltava. Mi guardai con cautela all'intorno. La luce, la parte in luce di quel locale strano, mi mostrò una paretina con dipinti tralci d'uva e viticci aggrappati a qualche legnetto inchiodato a rombi. Pensai alla mia maestra e alla favola della volpe e dell'uva. Mi aveva preso un leggero panico: "Cosa sarebbe successo?" ![]() Non vidi mai l'opera finita. E non so ancora il perchè. II professore era Livio Benetti, aveva trent'anni compiuti da poco. Io indossavo un maglioncino non di lana, dono usato di zio Giovanni, a rigoni colorati orizzontali. Un paio di calzoncini corti con bretelle di stoffa. Calze smesse da qualche adulto e peduli di pezza alla "malenca", forse cuciti dalla possente Laura, "conciaossi" di vicolo Malpasso. Un boccione di femmina, fatta di cosa morbida. Le mani grosse sistemavano le slogature e infilzavano senza fatica gli strati duri di stoffa per fare peduli. Le scarpe dei "malenchi" e dei poveri. Le lezioni date dal Professore alle due signorine continuavano. Lassù nel "Crap" della Baiacca, la primavera esplodeva, mentre in basso, nella cittadina semideserta, ormai estranea e persino nemica, rari passanti si potevano contare con le dita delle mani. Quasi soltanto uomini in divisa. E la notte di S. Giuseppe, il 19 marzo, il sonno fu interrotto da spari. Dapprima radi e poi via via in crescendo, tanto da riempire il buio come per una festa. Erano spari vicini. Provenivano da oltre la rupe del Campoledro. Rimbombavano ed ingigantivano nella gola rocciosa scavata dal Mallero. II 20 marzo fu giorno di scuola e salii lassù, come sempre. A mezzogiorno scendemmo in gruppo, di volata, gridando come fanno i bambini di tutto il mondo, quando si sentono liberi, per lo stradone a ridosso del Cotonificio. I peduli battevano a colpi sordi, sulla terra battuta. Poi, all'imbocco di quella nera passerella, dondolante sul Mallero, ci bloccammo. Una grande macchia di sangue, scura, intrideva la polvere della strada, proprio all'imbocco della passerella avevano ucciso un uomo, nella notte densa di spari. Il vocio cessò. Brevi mormorii ed il rumoreggiare del torrente. Pensai al Professore. Chissà cosa ne aveva pensato. La sua casa, il luogo della mia posa sullo sgabello, si trovava proprio nel mezzo di quella battaglia notturna. Un giorno, mentre di nuovo me ne stavo seduto sugli scalini della cappella, vidi le signorine. Mi dissero, se ero d'accordo, che avrei potuto posare di nuovo, nella Casetta dei Nani, come io la chiamavo, qui sopra la Baiacca, alla prima curva di Campoledro. Mai più alla Masegra. Dissi di si. Ma tutto non fu piu come prima. II sole alto, forte, m'aveva tolto la voglia di sognare. L'inverno era davvero finito. Sopra: il ponte, in localita Gombaro, imboccato per l'ultimo cammino dal "Moro", l'uomo descritto nel racconto. (Foto F. Fanoni) In basso,: ritratto di Ferruccio Scala bambino (olio su tela) | |
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