Lassù tra i larici c'è un lago dove si abbeverano caprioli, cervi e camosci



(Da Quaderni Valtellinesi n.83-84 - 3° e 4° trimestre 2002)

Mi avvio, come è ormai tradizione annuale, alle prime luci di un freddo mattino di ottobre, lungo la strada sterrata che conduce lassù, al limitare di boschi di larice ormai ingialliti dall'incipiente autunno, verso quegli alpeggi che si possono vedere già sfiorati dal primo sole.
Sono fiducioso di poter vedere, seppur da lontano, qualche capriolo sbucare da dietro un ramo dorato o qualche stupendo cervo in amore e quasi certo di vedere qualche gruppo di camosci al pascolo sotto quel crinale che sale sinuoso verso le cime appena imbiancate, su cui spesso vola l'aquila.
Per anni ho amato la montagna, l'aria frizzante del mattino, il profumo delle resine dei boschi e l'acre odore della pietra scheggiata dal battere del ferro, senza accorgermi, se non di rado, di essere spesso osservato,dalla cima di uno sperone o dal fitto del bosco o addirittura dall'alto del cielo, da occhi attenti e furtivi, cui niente sfugge.
Quando ci si dedica alla ricerca dei funghi o a quella dei minerali, si tende a prendere in considerazione solo il sottobosco, il fondovalle sassoso di vallette di montagna o le morene dei ghiacciai, chiazzate qua e là di fiori alpini e raramente si alza la testa per vedere quello che ti succede attorno a meno che qualche rumore improvviso, verso d'animale o rombo di valanga, non ti risvegli improvvisamente dal torpore.
E' proprio vero che si vede solo quello che si vuol vedere e trovi solo quello che vuoi trovare e questo purtroppo capita anche nella vita, quando sei troppo giovane per apprezzare quello di cui capirai la bellezza quando sarà troppo tardi o quando sei troppo ottuso e preso dalla fretta o dalla scarsità del tuo campo visivo per vedere e sentire cose che sono lì a portata di mano.
E'anche vero però che se hai dentro un amore sincero e completo per qualcosa o qualcuno, animale o persona che sia, in cui ti riconosci in cui sei sicuro di poter riversare la tua fiducia, perché istintivamente, con dolcezza incomparabile, te la trasmette, allora non c'è problema di tempo o spazio che possa impedire, un giorno di dedicarvisi anima e corpo, di incontrarlo, conoscerlo e talvolta amarlo e di riversarvi, anche una sola volta, tutta la tua passione per anni inconsciamente repressa.
Così capita spesso che da una passione si passi ad altra o si capisca meglio la prima condividendola con la successiva.
Ma ritorniamo a noi e al mio incedere sul sentiero che percorro lento e pensieroso anche se non eccessivamente appesantito da attrezzatura fotografica, bevande e scorte alimentari; mi ricordo che qualche anno prima in un prato tra gli abeti e qualche castagno, proprio sopra quella baita che mi si para davanti avevo trovato una decina di porcini favolosi e anche se poco convinto, data la stagione inoltrata, mi allontano dal tracciato per dare un'occhiata, non si sa mai; come previsto però tra l'erba ricoperta di foglie, sbuca solo qualche russula intirizzita che chiede pietà e quindi proseguo.
Saltellando rapido, vedo uno scoiattolo grigio attraversare il sentiero e così mi viene da pensare a quello che ho letto su qualche rivista naturalistica in merito alla diffusione spropositata di questa specie molto aggressiva, originaria dell'America del nord, che sta velocemente prendendo il sopravvento su quella autoctona dello scoiattolo rosso.
Giunto alla croce, mi addentro per il sentiero che prosegue dolcemente, quasi piano, proprio lungo il versante della valle; il bosco appena sotto di me presenta larghi squarci e attraverso di essi è possibile contemplare il fondovalle immerso in una nebbiolina perlacea che si sta lentamente sollevando; il paesaggio è meraviglioso nel silenzio e gli azzurri crinali delle valli laterali, quasi sospesi nella bambagia, si succedono come quinte di un teatro naturale, che si apre al mattino per offrire l'incomparabile spettacolo del risveglio quotidiano.
Non si può non scattare qualche fotografia e come succede spesso, appena riposta la macchina, sento un cadere di sassi, mi giro e vedo un'ombra che dal bosco sottostante sale strisciando, arrampicandosi sul bordo del sentiero; guardo meglio e vedo un capriolo attonito, dagli occhi dolci e neri che si ferma, mi guarda, mi fotografa, si fa per dire e se ne va.
Tirando qualche moccolo, riprendo l'apparecchio fotografico, monto il tele , mi alzo ma ormai è troppo tardi; quell'immagine questa volta rimarrà solo nel pensiero e negli occhi, suoi e miei, ma rimarrà, probabilmente più duratura e presente di quella impressa sulla carta, che si fa viva poi solo quando la guardiamo e cioè assai raramente.
Invece di proseguire in piano verso ovest, decido di salire a nord su un ripido pendio verso la bocchetta e l'affilato crinale che si stira su verso i Corni assolati; da lì potrò vedere la vallata retrostante ed ammirare dall'alto il primo lago.
L'erba è viscida e procedere diventa difficoltoso e sempre più faticoso ma quando arrivo sulla cresta il sole è già alto e lo spettacolo di là è assicurato: lo scenario si apre sul Gruppo del Bernina imbiancato e avvolto da qualche nuvola ovattata e ancora incerta sul da farsi, mentre appena sotto di me vedo un occhio di blu che si apre tra gli ancor verdi alpeggi; un gregge di pecore, vedendomi, si fa avanti scambiandomi per il pastore e comincia a belare e ad assalirmi amichevolmente, in cerca di qualche manciata di sale.
Dopo avere proceduto per un lungo tratto seguito dalle pecore innamorate, avendo sulla destra il Gruppo del Disgrazia e il Pizzo di Cassandra e sulla sinistra la valle blu, segnata dal rilucente snodarsi del nastro dell'Adda che laggiù in fondo si va a baciare con il lago, mi fermo per un breve spuntino.
Sento lontani due spari in sequenza che spaccano il silenzio, ma a parte le male parole che rivolgo ai soliti maniaci del fucile, augurandomi che i colpi siano andati a vuoto, non ci faccio tanto caso.
Repentine e improvvise, compaiono sul crinale di fronte le figure agitate, immagini segnate dal terrore di alcune cerve inermi con degli esemplari maschi giovani che appena comparse si gettano giù per un canalone verso il secondo lago che ormai si scorge in lontananza; subito dopo compare maestoso il maschio capobranco, col suo maestoso palco di corna; oltre che spaventato deve essere spossato.
Lo voglio osservare meglio e attraverso il binocolo noto che ansima e ha la lingua penzoloni; si ferma un attimo a guardare la valle e poi si getta all'inseguimento dei suoi compagni che evidentemente segue proteggendone la fuga.
Non capita spesso di vedere una scena così drammatica; ricordo un'altra scena simile sotto il pizzo del Teo in val Poschiavo quando a fuggire erano però alcuni camosci che in quindici secondi hanno risalito a balzi un canalone impervio, sparendo poi dietro la cresta che dà sulla val di Campo, mentre alcune palle fischiando scheggiavano le rocce vicine.
Riprendo il binocolo e guardo dove è finito il branco in fuga: sta risalendo lentamente il bosco al di là della valle, confondendosi quasi dietro alcuni larici color ruggine con il maschio sempre in coda ad una cinquantina di metri, che ogni tanto si ferma a tirare il fiato e a guardare verso il pendio appena disceso. Forse questa volta ce la faranno; una volta raggiunta la riserva dovrebbero essere più al sicuro.
Ormai è pomeriggio inoltrato; ho il sole in faccia che si sta abbassando sempre di più dietro la montagna e scendendo verso il lago, in cui si riflettono i larici color oro, mi fermo seduto su un sasso a guardare una marmotta che dopo avere lanciato al cielo i suoi fischi d'avvertimento si è paralizzata fissando un punto là di fronte, forse quel gruppo di camosci che dall'alto dei picchi sta osservando con una certa indifferenza tutto quell'andirivieni; di certo non mi ha visto, anche se mi ha sentito; ritta sulle zampe posteriori, in una posa sua tipica, tiene quelle anteriori piegate di fronte al petto e sembra in preghiera.
Mentre mi avvio verso valle mi domando: Chissà per chi starà pregando?



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