La Vedretta della miniera in Val Zebrù



La Val Zebrù, si distende in tutta la sua lunghezza e la sua selvaggia bellezza in pieno territorio del Parco Nazionale dello Stelvio e presenta tutte le caratteristiche della tipica valle alpina con ampi distese di boschi a pecceta, larice, pino mugo e gembro, inframmezzati da ampi alpeggi in cui spiccano le caratteristiche costruzioni in legno dell’alta valle. Per addentrarsi in questo paradiso naturalistico, che riserva sorprese a non finire non solo dal punto di vista strettamente mineralogico ma anche faunistico e botanico, si possono scegliere due itinerari, quello a cui fa da anfitrione il paese di Madonna dei Monti e che si svolge lungo la strada sterrata che percorre tutto il fondovalle fino alla Baita del Pastore e alla partenza dell’itinerario verso il rifugio V°Alpini o verso il passo che conduce poi in valle dei Forni e al rifugio Pizzini, oppure quello che partendo dalla strada dell’Ables conduce all’Alpe Solaz e che poi si addentra a mezza costa tra i bassi boschi di pino mugo sul versante destro orografico. La scelta dipende chiaramente dagli obbiettivi, se ci si vuole addentrare verso le cime e i ghiacciai, o se invece si vuole solo visitare il primo tratto di valle, magari per respirare aria buona o ammirare qualche bel cervo; non è poi da sottovalutare il fatto di poter o meno disporre di un mezzo autorizzato per percorrere più velocemente il lunghissimo primo tratto che porta fino alla Baita del Pastore, guadagnando così tempo per poi percorrere con maggiore tranquillità il secondo tratto fino alla Vedretta e alla zona mineralogica ad essa legata. Si tenga sempre conto del fatto che, essendo in territorio del Parco, qualsiasi prelievo sia di specie botaniche che faunistiche o mineralogiche sono assolutamente vietate, salvo permesso esplicito della Direzione del Parco stesso, che provvede al rilascio solo se la richiesta è debitamente documentata. Dal punto di vista geologico, a partire dalla Reit appena sopra Bormio, ci troviamo nel regno delle rocce calcaree e dolomitiche permo-mesozoiche della formazione della Dolomia del Cristallo (Norico), che poggia sulle formazione metamorfica delle Filladi di Bormio, divise dalla cosiddetta Linea dello Zebrù, linea tettonica che parte dal passo di Cassana e arriva appunto in Valfurva procedendo oltre. La prima appartiene alla falda dell’Ortles, una delle più elevate del complesso sistema strutturale dei ricoprimenti che caratterizzano il nostro sistema alpino, la seconda alla Falda di Campo, entrambe facenti parte delle Austridi superiori e medie che caratterizzano buona parte dell’alta valle e del Parco dello Stelvio fino a Livigno. Entrando in Val Zebrù ci sarà però uno sconfinamento entro un ammasso intrusivo di caratteristiche completamente diverse che presenta una particolare ricchezza di specie mineralogiche assai ricercate dai collezionisti: si tratta di un intrusione relativamente recente di circa 30 milioni di anni fa, entro filladi, micascisti e gneiss, in Valfurva e entro rocce calacareo-dolomitiche in Val Zebrù, che si estende nell’area che va dal Passo della Bottiglia, alla Cima di Pale Rosse fino appunto alla Vedretta della Miniera ed è costituita principalmente da granodioriti e andesiti intersecatisi con la Linea dello Zebrù cui abbiamo sopra accennato. E’ qui che noi ci recheremo, non sottovalutando però quegli aspetti naturalistici e faunistici che sappiamo interessare tutti coloro che amano la montagna. Lasciata la Baita del pastore e superata la grande frana caduta nel 2004 dalla cima del Thurwieser, scorgiamo sulla sinistra molto più in alto, in direzione del Piccolo Zebrù, il rifugio V° Alpini; procedendo lungo la valle verso est, ci vogliono ancora un paio d’ore per arrivare sotto la vedretta della miniera, che scende dalla sinistra, in una zona dove è possibile ammirare branchi di maestosi stambecchi che pascolano tranquilli; lungo il tragitto capita, soprattutto nei mesi primaverili, di imbattersi in qualche volpe o qualche cervo solitario o addirittura in qualche cucciolo accovacciato tra l’erba, mentre a fianco del sentiero sono sempre presenti ciuffi di preziose e belle stelle alpine. Da qui si entra nella zona geologicamente più interessante e relativa all’ammasso intrusivo già citato, che presenta le mineralizzazioni più interessanti e si può cominciare ad aguzzare la vista tra i sassi, che si fanno sempre più variopinti, per verificare l’eventuale presenza di qualche campione degno di essere messo nello zaino. Capita infatti di trovare già nella parte più bassa della vedretta piccoli ammassi di magnetite,associata talvolta a pirite, calcopirite e bornite, residuo delle ricerche di minerali di ferro che si praticavano nella zona (da qui il toponimo del piccolo ghiacciaio assai ritiratosi negli ultimi anni, come tutte le nevi perenni delle Alpi), oppure tracce di granato, miscela di andradite e grossularia, associato a vesuviana, noduli di monticellite biancastra, epidoto e diopside o piccoli candidi ottaedri di gismondina. La salita si fa sempre più impervia, attraverso ripide discariche di sassi e ghiaioni franosi e più si sale maggiore è lo stupore che coglie l’escursionista davanti ad un ambiente sempre più minaccioso, ma anche per uno spettacolo che si fa sempre più affascinante e meraviglioso: di fronte i massi diventano sempre più grandi, i ghiacci più vicini e crepacciati mentre il terreno diventa sempre più scivoloso e insicuro ma basta girarsi verso valle e il panorama con le cime della Manzina, del Confinale e delle Saline più a ovest, lascia a bocca aperta. In compenso la ricerca comincia a dare buoni frutti ed i cristalli di vesuviana entro una bella calcite azzura, tipica della zona, diventano più nitidi e i cristalli lattei della gismondina molto più grandi e distinti. Mentre si lavora di mazza, stando ben attenti che il terreno non scappi sotto i piedi - infatti non dobbiamo dimenticarci che siamo su un cosiddetto rock-glacier, cioè sul ghiaccio vivo, anche se sepolto da un ammasso di sassi e che da un momento all’altro qualche grosso masso scaldato dal sole può improvvisamente decidersi di partire verso valle trascinando con sé tutto quello che trova sul suo cammino - può capitare la fortuna di vedere volteggiare sopra la nostra testa il gipeto, un avvoltoio di circa tre metri apertura alare, la cui presenza in alta valle e nel parco dello Stelvio è diventata in questi ultimi anni, dopo ripetute nidificazioni andate a buon fine, quasi un’abitudine. Quando lo zaino e le gambe si fanno pesanti, è l’ora di pensare al ritorno dato che anche la discesa, da farsi sempre con prudenza, richiede le sue belle tre ore di cammino che già sappiamo però ci lasceranno, insieme alla stanchezza, ottimi ricordi e grandi soddisfazioni.





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