Critica dal 1943 al 1980


Lo studio della pittura moderna dal '700 a noi gli svela i fenomeni pittorici della rivoluzione impressionista da Manet a Cezanne e lo sviluppo dal primitivismo di Derain e il parallelo, ma intimamente diverso movimento nostro dei "macchiaioli" e ne rimane fortemente impressionato, pur nella sua romantica natura di settentrionale.
Benetti si ispira alla realtà e la ritrae fermandone le sensazioni degli aspetti fugaci. Dotato di fantasia e di animo sensibile cui si accompagna un sicuro disegno, ha paesaggi composti in una atmosfera di pace, di equilibrio sereno, in fondo fa sue le considerazioni di Sobrero: A me pare che gli artisti moderni vadano cercando ciascuno di esprimersi con un gergo ristretto e unilaterale come un dialetto.
La tavolozza gli riesce chiara, semplice, eppure dalle terre rosse, gialle, fino alla infinita varietà dei verdi è tutto un fervore d'indagini. C'è in potenza e in cantiere il problema scottante del colore, "prima facevo degli schizzi a penna, egli scrive, poi a carboncino, cercando di rendere l'aria, l'atmosfera, col solo chiaroscuro, poi mi sono arreso all'evidenza ed ho fatto il primo compromesso col colore consistente in leggere velature di acquarello passate sul carboncino. Il colore però deve avere in sé qualcosa di magico perché man mano che queste velature prendevano forza mi andavo persuadendo e convincendo di non aver mai capito il colore e con strani entusiasmi scoprivo un giorno un giallo, un altro un rosso o un rosa ".
Ma facevo dei disegni dipinti, non della pittura. Però da questi sempre sforzandomi di capire il processo di realizzazione che avveniva istintivamente, sono arrivato a solide persuasioni ed a capire qualcosa di estremamente semplice; cioè che la pittura è fatta di colore. Conclusione lapalissiana. Ma il colore vive in modo strano, misterioso, ancora largamente da scoprire, pur attraverso le esperienze dagli impressionisti a noi, tutte da ripensare fino a rivelarne la sovrana bellezza. "
... Oltre che pittore in elaborata evoluzione, Benetti è scultore, anzi egli dice di sentirsi spiccatamente scultore, perché quella è stata sempre la sua grande aspirazione. "Mi trovo bene e a mio agio solo davanti a grandi masse di creta nelle quali è possibile modellare e plasmare a piene mani, sento il fascino del blocco, della materia entro la quale scoprire forme nuove, strane, suggestive. "
Arte d'istinto perciò la sua in un tumulto tecnico impressionista, mitigato dalle influenze rinascimentali toscane, grazia decorativa, e venustà di forme. Elementi psicologici e sofferenze creative affiorano dalle sue crete che vibrano di intensa vita.

G. B. Gianoli (1943)




Quanta luce vi è nelle opere di questo pittore! Ed è in essa che forse troviamo la nota che è più chiaramente sua e che lo ha aiutato nell'interpretazione tanto acuta della vicenda cosmica:
luce che avvolge di purezza le sue care montagne, che riveste di un linguaggio severo le seracche dei ghiacciai, che illumina a festa i suoi fiori, che penetra e scandaglia l'acqua del suoi ruscelli e che dà ai volti del suoi quadri vita tutta interiore, ove scorie ed esperienze di dolore e di fatica si fondono e si risolvono in una visione fiduciosa e attiva del mondo. Vi è ancora nel suoi quadri una ricchezza di tavolozza, che rivela il suo vivissimo senso del colore.
Colore che non. trasmette semplicemente l'emozione dell'artista, ma si trasforma in voce, diventa messaggio. Colore che rende sovente quel senso di intima tristezza che ci coglie di fronte al misteriosi ed infiniti riflessi della Natura. Colore che il pittore fa insistere su alcuni motivi che più armonizzano col suo spirito: sembra quasi di udire il suono di echi lunghi e attenuati che si rispondono da lontano.
Arte meditata quella di Benetti ed in continua elaborazione: la sua ricerca è insistente e ansiosa e si propone di rendere sempre più nitide le voci, le armonie, ed i segreti che si celano nell'essenza delle cose.
Visione del mondo e della vita che rivela quanto è sana la voce di questo pittore: onesta, serena, armoniosa e penetrata di una umiltà che non è mai rinuncia ma è serena coscienza di valori.

Flaminio Piccoli (1944)



Una luminosa serie di tranquille visioni campestri, di paesaggi con casolari, di acque che luccicano e danno barbagli fra il verde e i fiori, molti fiori vibranti di luce, tale il volto dell'ultimo Benetti. Immediatezza che prontamente avvince e si distacca da una prima maniera del pittore, che assai meno ricca di sintesi, concedeva volentieri ad aperte effusioni coloristiche. La conquista pare facile: questa immediatezza pare di ognuno: ma il freno e la meditazione estetica e il carattere immaginativo e trasfigurativo, tutto infine collaborò alla difficile strada compiuta.
Si è rarefatto un senso imitativo e naturalistico, è stato escluso con avvedutezza il gusto del minuzioso, del documentario; i colori si sono come sciolti, diffusi, e adagiati, rispondendo certamente ad una visione più interna, più persuasiva e quindi più lirica. Lirismo che si documenta in una costruzione effusa e luminosa, aerea quasi appena toccata dalla dolcezza del colore che conquide la materia, come dissolvendola per vedere oltre.

Diego Gadler (1944)



Infatti, fu la consuetudine di avvivare con l'acquerello le sue esercitazioni grafiche, ad interessare lo scultore ai problemi del colore, che egli volle successivamente approfondire in sperimentali ricerche. Donde l'inavvertito, quasi progressivo suo passaggio da una visione plastica della forma a quella tendenzialmente pittorica; quindi la sua entusiastica dedizione alla pittura, sia pure come transitoria, affascinante esperienza. Ciò nonostante, la nativa sensibilità plastica di Benetti, mai cessò di informare, più o meno, le sue pittoriche registrazioni, tanto da prospettarsi, alla vigile coscienza dell'artista, come perentoria, insopprimibile esigenza, e da indurlo, recentemente, a proporsi l'attuazione di un preciso intento: quello di risolvere su un piano di legittimità estetica, gli urgenti soggettivi fattori della visione artistica entro una essenziale oggettivazione formale.

Giulio De Carli (1947)




Benetti è un giovane trentino stabilitosi da qualche anno a Sondrio. In quell' ambiente raccolto e cordiale, dove a scendere in piazza ci si conosce un po' tutti e quel poco impianto urbano è come sommerso nella gran mota della valle maestosa solcata dall'Adda, non c'è molto tempo per le distrazioni. 0 si lavora sodo, con fede o la provincia incolta e selvatica si chiude su di voi, vi soffoca. Il pericolo, per chi non abbia nulla che gli parli dentro, è duplice: o di rompere i contatti con la vita in un'arte assolutamente anacronistica o d'altro canto di cadere nel folkloristico, nell'anedottico.
Benetti deve avere intravisto ad un tratto questo pericolo. Prima la sua ambizione era stata quella di porsi uno fra i mistici della montagna. Era lo scarpone che tendeva ad imporre al cuore la legge del suo caldo entusiasmo di fronte ai grandi anfiteatri dei pascoli alpini, alla torreggiante parata dei picchi dolomitici, in una solitudine, fra terra e cielo che esauriva già in sé stessa i motivi di una bucolica poetività. Ma poi si è accorto che il "soggetto" gli prendeva anche troppo la mano e quelle poche vibrazioni di luce e di colore non bastavano al suo bisogno di possesso e di espressione. Quello a cui era arrivato come plastico (bisogna pensare che Benetti è giunto all'esercizio della pittura dalla pratica di scultore, e ancora adesso sotto il suo scalpello la pietra ollare, materiale dalla grana compatta e brunita canta duttile e manierosa) non poteva dunque fare a meno di costituire per il pittore la meta di una nuova fase di ricerca.
Ricerca dispiegata nell'assoluta disponibilità e personalizzazione della tecnica pittorica ed allo stesso tempo nell'ascolto di un mondo interiore che andava riconosciuto a poco a poco, fra le mezze confessioni di un cuore non facile a concedersi e invece tutto pudicizia e discrezione.
In questo gli ha giovato il passaggio dai grandi ai piccoli formati... Il tema veniva infatti a scarnificarsi, a ridursi alla sua vera essenza puntata su poche note fondamentali, là dove insomma incominciava il processo di ricostruzione, di sintesi, soccorrendovi la padronanza ormai posseduta di un mestiere vario, ricco e immediato. Prende di lì avvio e respiro la nuova più seria e genuina pittura di Livio Benetti. Qualche volta è evidente che ancora qualche residuale compiacimento di materia e di generismo macchiettistico insiste su certi suoi angoli di paese, su certe baite di montagna sbalzate nella luce vespertina con calore cromatico quasi partenopeo; più spesso la sua arte prende a spaziare, assume un costrutto largo e solenne, pur restando umile nella sua quasi religiosa emotività lirica.
Le tele che Livio Benetti adesso vi presenta... mostrano dunque in lui l'approdo ad un'arte di qualità, a cui il poco spazio provinciale ormai più non basta. Perché appena ch'egli sappia uscire dall'impressione dell'accenno bozzettistico a tele di più compiuta realizzazione classica, il vasto empito vangoghiano dei suoi "campi" la rude nota pastorale dei "covoni", di una sobrietà da ricordare il miglior Vitali, le fresche ed argentine rogge valtellinesi evocate con nostalgico trasporto al modo di Lilloni sboccherano, non c'è dubbio, in uno stile destinato a rimanere fra le più schiette manifestazioni di questo nostro tempo di mistificazioni e di sterili accademie.

Costantino Baroni (1948)



... Ci pare tuttavia di dover soprattutto notare che la sua tenace fatica, ora più che mai è intesa a trovare e a consolidare una propria disciplina di linguaggio. Anni addietro si poteva cogliere nella pittura di Benetti una certa esitazione di natura tanto sentimentale quanto culturale, quasi dovesse scegliere tra una incontenibile esigenza di realizzazione plastica, cui lo portava il suo occhio di artista che è anche scultore e una più pura e decisa pittura, che per intenderci, diremmo bidimensionale. Ne veniva di conseguenza che se pure alcuni lavori erano piacevoli e cordiali per la loro evidenza, altri erano più suggestivi e lirici in virtù della pennellata veloce e luminosa, quasi sospesa, come se il pittore avesse coraggiosamente deciso di non procedere ad un ulteriore lavoro di rifinitura che avrebbe potuto appesantire il quadro.
Era già in atto allora un problema fondamentale, alla cui soluzione Benetti si è andato gradualmente avvicinando, consistente nel far quadrare forma e colore, o in altri termini, nel giungere a un colore, che pur prevalendo, non annulli del tutto la forma e tuttavia la suggerisca e la evochi. Il compito è difficile. Tanto più che tale tecnica è perseguita sia nel paesaggio che negli altri generi di pittura, tanto con l'olio che con l'acquerello. Un quadretto del '42 quasi come un punto di partenza può eloquentemente attestare le esperienze di un pittore che non si risparmia nel polemizzare con se stesso, né si dichiara vinto da eventuali risultati che si rivelino non del tutto rispondenti alla sua attesa. Benetti sente il colore e si è prefisso di conquistarlo nella sua immediatezza, convinto che la pittura è soprattutto colore. Questo si badi, pare un luogo comune ma lo è meno di quanto si creda. Tale convinzione è specialmente visibile in alcuni recenti quadri di fiori in cui la sensazione cromatica vuole essere data per macchie, inserite in una struttura appena accennata. Volendo trovare dei riferimenti nella pittura contemporanea, le predilezioni del pittore sembrano andare a De Pisis ma anche ai maestri dell'espressionismo e specialmente a Kokoschka.

Luigi Livieri (1955)



.....Crediamo tuttavia doveroso, in occasione di quest'ultima fatica, dargli atto dei risultati ai quali è giunto attraverso l'intelligente e appassionante ricerca di uno stile in cui si sommano cultura e nobiltà di ispirazione. Livio Benetti si vale di un linguaggio sintetico e unitario in cui l'interesse artistico va bellamente al di là del semplice interesse descrittivo, che ordinariamente si costituisce intorno al soggetto.
Nelle arti figurative e in modo speciale nella scultura per la sua stessa materia, si è istintivamente portati a cercare valori illustrativi, o come più spesso si dice di contenuto e perciò una espressione come quella di Benetti, nel rilievo di cui parliamo, potrebbe suscitare la sensazione di una preconcetta evasione verso effetti preziosi e di natura intellettualistica. Ma a considerare bene l'opera, si nota che l'esigenza illustrativa senza essere né negata né avvilita, si fonde armonicamente con l'esigenza formale o decorativa che dir si voglia, che insopprimibile in ogni opera d'arte, diventa dote peculiare del bassorilievo, come attesta tutta una tradizione. Di proposito si è parlato sopra, di un solito fondo culturale nelle sculture di Benetti, e infatti nella complessità dei piani e degli effetti chiaroscurali, naturalmente comuni a tutti i lavori del genere, si avverte un processo di stilizzazione ispirato ai rilievi gotici e cioè a quella forma d'arte che nel bassorilievo ha raggiunto vette forse insuperate.
Su questo gusto indubbiamente raffinato, s'innesta la personale esigenza dell'autore, mirante alla leggerezza e alla unitaria articolazione di tutti gli elementi, attraverso una felice concezione dello spazio.

Luigi Livieri (1959)



Benetti vede il paesaggio valtellinese in modo non retorico e cioè fuori dallo squillo di una allegria chiassosa e troppo ottimista; sente una Valtellina angosciosa, tragica, umanizzata. Il paesaggio è un pretesto, come oggetto, a divenire sentimento unico, cercando di avvicinarsi alla sintesi di: "Che cos'è questa Valtellina?". E' un grande mostro addormentato o una tenaglia in attesa, un grande testimonio millenario fatto di sasso, dove l'attesa trascende la conoscenza umana, sciogliendosi nelle vaghe sensazioni fatte di trasalimenti e di brividi? Anche i più ottimistici pittori che hanno voluto cimentarsi nella raffigurazione di questa valle, raramente hanno connesso il paesaggio a qualche cosa di sintetico. Silenzi elegiaci per i più superficiali, tragicità per chi vuole scavare nel terreno arduo di questa terra. Senza cadere nella raffigurazione esplicativa della pittura "sociale" Benetti ha saputo cogliere nel suoi paesaggi il senso della vita e ancor più della vita-morte, della vita passaggio: Arcaismo, peso delle generazioni passate, antiche, morte. Siamo di fronte al bozzetto del grande affresco che in giorni di durissimo lavoro, Benetti ha realizzato a Bormio l'anno scorso. Dietro la naturalistica presentazione di un paese fatto di torri e campanili e brevissime notazioni cronistiche, si vedono le montagne simboleggiate dal santi protettori di Bormio.
La tecnica si scioglie ed è tutto un gioco di figure umane o umanizzate, dove le trasparenze formano brevi pinnacoli di montagna vera, di sasso azzurrato, per poi tornare figura umana. Il simbolismo, sempre arduo da realizzare perché troppo è facile cadere nel banale, qui trova la sua sede naturale che è l'evocazione, detta o non detta del soprannaturale.

Ferruccio Scala (1963)





Per la verità sarebbe giusto fermarsi, senza fretta, a ricapitolare i venticinque anni di attività artistica di Benetti, se non altro perché essi assumono ormai un significato di notevole rilievo nella vita culturale valtellinese, entro cui egli ha operato con esemplare continuità di ispirazione e di equilibri, in uno svolgimento dall'interno della sua esperienza, senza farsi disturbare e distrarre da pressioni intellettualistiche, estranee ai suoi personali motivi di ricerca.
Non è certo rimasto indifferente alle correnti che hanno agitato il linguaggio della pittura, se non altro per la sensibilità acuta che ne caratterizza l'attenzione sul "presente", ma si direbbe che gli è stato facile riflettere il clima fisico e umano della Valtellina, così naturalmente al riparo dalle tensioni eccessive. Nessun ermetismo quindi, né gusto per l'enigma. Ma neppure disposizione all'effetto immediato e facile, alla poesia a fior di pelle, alla vendita al minuto di sensazioni gradevoli a prima vista. Se si osservano alcune opere, ci si accorgerà che nella sostanziale fedeltà alla struttura del reale, la ricostruzione fantastica e lirica delle cose è profondamente libera ed è filtrata da uno schermo complesso di vibrazioni emotive, di contemplazione, di coscienza critica. Il primo mezzo o momento di questo misurato arbitrio creativo è la felice scelta - viene da dire 'fortunata", tanto appare spontanea - del punto di vista, dell'angolazione del paesaggio o della natura morta.
Ciò, appunto è tanto più evidente nelle nature morte, dove interviene l'organizzazione, la manipolazione del pittore a determinare i rapporti, i ritmi, le posizioni: i "Girasoli" hanno valore di struttura che, almeno fino ad un certo punto, giovano a confermare l'originale attitudine e maturità di Benetti per la composizione. Si ha poi nel paesaggio l'impressione che il pittore colga di sorpresa una certa prospettiva, catturi, con un abile appostamento, il profilo dolce e mosso di un declivio, blocchi all'improvviso una irrepetibile istantanea di tetti o di baite o di vigne. L'originalità strutturale di taluni tagli fa pensare ad una caccia alla selvaggina da parte di un cacciatore che unisca allo slancio la smaliziata abilità del mestiere. E la preda si intende viene presa viva, perché il quadro di Benetti è sempre arguto e ricco di vitalità.
Il momento del colore accentua la presa di posizione del pittore nel riguardo delle cose. La sua libertà è anzitutto selettiva e si manifesta nell'esclusione e nella predominanza di certi colori, nella rinuncia alla pienezza solare, per una luminosità calda, ma smorzata, alle volte velata, altre volte intensa di tonalità in contrasto, secondo la maggiore o minore intenzione plastica; altre volte ancora disposta secondo una gamma più varia, festosa, quasi euforica. Se in qualche pezzo le superfici di colore sono stese in successioni continue e tranquille, non mancano inquiete elaborazioni a chiazze più o meno irregolari che sembrano denunciare una inclinazione di carattere espressionistico. Potremmo sbagliare, ma ci sembra ci sia stato in Benetti, in questi ultimi dieci anni, un progressivo allontanamento dalla sponda impressionistica, cui dimostrava di essere ancorato, per un approfondimento, privo di impazienze e forse, non ancora del tutto avvenuto, meditato comunque e intenso, nell'ambiente espressionistico, verso cui appare richiamato dall'energia della sua visione e dal possesso ormai pieno dei suoi mezzi espressivi.

Giulio Spini (1964)



L'ho rivisto in questi giorni. Ci rivediamo nello studio a distanza di anni, sempre uguali. Col rispetto dovuto all'operare comune non parliamo a vuoto; guardiamo solamente il suo lavoro, attraverso le testimonianze fotografiche o quanto è sparso negli scaffali, bianco immobile. Benetti opera in silenzio e la mole del lavoro svolto è notevole. In Valtellina, purtroppo non abbiamo altri esempi di scultori operanti. Benetti è scultore. I protagonisti dei suoi lavori, ... quasi sempre sono dei lavoratori siano essi contadini od operai. L'esempio vivo di questo artista è quello di un antico "uomo di bottega", caro alle tradizioni migliori dell'arte italiana.
Suo padre era un artigiano del rame e la foto di trent'anni fa ce lo mostra con le maniche rimboccate all'interno, con un profilo nobile di operaio illuminato dal fuoco che scalda il metallo e le braccia nerborute che si affondano lì dentro a curare la metamorfosi. Livio Benetti è figlio di quest'uomo ma lavora tutt'altra materia con una decisa preferenza per le forme. Tutti i rami, tutte le tecniche artistiche sono state percorse da questo instancabile ricercatore. Mosaico, xilografia, disegno, acquerello, olio, grafica, scultura. I disegni e gli acquerelli hanno una forza nervosa che riflettono l'amore per la scultura e al contrario la scultura ha forme composite, specie nei gruppi che ricordano gli affreschi. Gruppi, facce espressive, rappresentazioni corali. Il lungo cammino silenzioso di Benetti riserberà altre sorprese, perché egli è un uomo con una diversa valutazione del tempo quale la può avere uno di noi, preso dalla finta accelerazione dei nostri tempi. Nel lungo ricercare per le pieghe della storia di queste e di quelle popolazioni alpine, Benetti ha trovato per via, anche il senso pacato del tempo naturale che non ha mai fretta. L'isolamento che lo circonda favorisce senza dubbio il fluire di questa misura.

Ferruccio Scala (1971)



Tutte le volte che a Sondrio chiedevo al mio amico, il Giudice Giuseppe Monai di andare a trovare Benetti, mi rispondeva immancabilmente.- "Ma, sai, Benetti sta a Masegra " ' Io, poco pratico della toponomastica della capitale della mia Provincia, m'ero messo in mente che questa località fosse lontana dalla città. Mi dovrei vergognare di conoscere ogni angolo della collina di Montmartre, ma di non sapere che Masegra è una piccola altura nel bel centro di Sondrio, che, senza pretendere la concorrenza coi fatidici colli di Roma, è in compenso più di quelli dolcemente pittoresca.
Ma un bel giorno si finì per andarci e fui stupito del brevissimo tragitto e ancor più della stupenda dimora dell'amico Benetti in tutto degna di un artista come lui. Solo un collega poteva sapere l'importanza dell'ambiente adatto al proprio lavoro, e lui, pittore e scultore non se l'era costruita apposta ma l'aveva trovata bella e pronta lontana da ogni frastuono in una quiete da romitaggio.
Naturalmente ci accolse festosamente con tutti i riguardi dovuti al mio illustre accompagnatore. Ed eccoci nella sua officina nella quale, proprio in quel giorno era fiorita una piccola pianta grassa con un bel fiore, detto appunto "della felicità" avendo la prerogativa di durare un sol giorno. Proprio per noi evidentemente, anche questa delicata attenzione!
Bisogna sapere che l'artista è valtellinese d'adozione, essendo oriundo trentino, ma non ha mai abbandonato Sondrio, arricchendo la mia Valle d'ogni genere di lavori. Dico di ogni genere, perché come gli antichi è pittore, scultore, disegnatore, d'una perizia tecnica da ricordare l'artigianato d'un tempo, quanto la bottega, auspicata da Manzù per un provvidenziale ritorno al mestiere, irrealizzabile purtroppo in questi tempi di faciloneria e addirittura di mortificazione imperante.
La prima opera che vidi del mio collega, fu la fontana che s'incontra arrivando dalla stazione di Sondrio e fui stupito che nella città ci fosse un artista di tanta perizia, sia dal lato compositivo che da quello decorativo, perché la scultura non s'accontenta del mestiere occorrente per un dipinto di ben più agevole realizzazione, non consentendo dilettantismi di sorta. Ancora non conoscevo allora personalmente l'autore e l'amico Monai mi rese edotto succintamente della multiforme attività di Benetti, citandomi l'elenco delle sue opere principali e in fatto di pittura poté subito mostrarmi, arrivando nella piazza. un palazzo da lui decorato con ottime composizioni.
In campo grafico, non esce una delle preziose monografie edite dalle banche locali che non siano illustrate con disegni di Benetti che fedelmente illustrano le bellezze della Valtellina con estremo rigore documentario.
A poco a poco ebbi occasione in seguito di vedere altre sue opere, perché ci conoscemmo presto al caffè della Piazza principale e con lui conobbi il pittore Fumagalli, figlio del caro amico Eliseo, grande affreschista del Santuario di Grosotto dove m'arrampicai per vederlo al lavoro sulla volta, sorretta da cariatidi in scultura coi riflessi azzurri dipinti sulle figure, da far invidia al famoso Padre Pozzo di Roma.
Ma la nostra visita all'artista mi rivelò soprattutto la sua estrema modestia di chi, animo di vero artista, è pago del suo lavoro senza ambizioni pubblicitarie. Dote raramente riscontrabile, perché sola prerogativa dei pochi che conoscono appieno il proprio mestiere, oggi più che mai negletto coi brillanti risultati che possiamo ammirare.
Tale prodigio può verificarsi solo o quasi in provincia dove sussiste quel provvidenziale isolamento che permette al vero artista di operare secondo coscienza, lontano dalle vane ambizioni di così breve durata, caratterizzate dall'inflazione delle mostre. Quella vanità che qui è esclusa, permettendo a chi ha qualcosa nel cuore, qualcosa da dire che solo la solitudine può favorire.
Quella tale solitudine alla quale ambiva il Sommo Délacroix, nel suo famoso Diario e con lui tutti i grandi artisti. Diario stupendo nel quale tra l'altro proclamava quella grande verità: "Non c'è niente di più vecchio del nuovo". Parole da meditare non solo da parte degli artisti, ma soprattutto dal dilagante snobismo del cappellino di moda.
Può apparire paradossale l'affermazione del genio francese della pittura ottocentesca, e lo è. Ma il paradosso è talvolta necessario per scuotere la pigrizia nefasta della consuetudine: in questo caso, appunto, la moda.

Luigi Bracchi (1974)



E' questo il terzo giro decennale che credo utile compiere tra coloro che operano seriamente con la pittura in Valtellina. Fermi restando alcuni punti prefissati sotto forma di stili che hanno caratterizzato i diversi artisti, vedremo e visiteremo i loro studi e registreremo le varianti che, nel passare degli anni questi pittori hanno realizzato.
Livio Benetti è necessariamente il primo perché, come dice e come condivido: "Quando iniziai a lavorare in questa Valle, trovai il nulla, artisticamente parlando salvo che, i così detti "pittori da cima" o delle asettiche punte delle montagne, dove il ghiaccio esige la totale assenza dell'uomo, del contadino, del lavoratore.
Quadri come enormi cartoline da rappresentanza e contemplazione. Figurazioni che avrebbero potuto essere state riprese in un punto qualsiasi dell'intero arco alpino. C'era la totale mancanza di aderenza, di radice in questa bellissima Valle, faticata dall'uomo. lo decisi di scendere più in basso e rivedere la Valtellina, come fosse Toscana. La bellezza della terra nella quale è presente la mano dell'uomo. Dove vive a lavora l'uomo".
Dove le stagioni, le nubi, la neve, i colori dell'autunno sui sassi e sulla vegetazione sono tanti segnalibri, per chiunque abbia desiderio di leggere sulle pagine valtellinesi. Ne fanno fede gli ultimi lavori ad acquerello di Benetti, messi in fila nella saletta esposizione di Via Cesare Battisti a Sondrio.
Sono riprese difficili sia per la tecnica che esige immediatezza e nessun pentimento o errore nella stesura che, per il soggetto dove la montagna, quella ripida di Valmalenco presso Torre e con aggancio a Mossini (ultima propaggine del comune di Sondrio) non offre la libertà di cieli aperti e prospettive liberatorie, ma sequenze verticali, costellate di macchie a tassello, come per la realizzazione di un mosaico.
E il tempo d'autunno ed una gamma di bruni, di rossi, di gialli erompe con forza da quei sassi e dai muri delle case, colpiti dal sole di primo pomeriggio; segni verticali di piante irrigidite in precaria esistenza tra i massi, giocano da contrappunto ad essi, tra loro inseriti e tondeggianti. Note musicali figurate, sui sassi.
E la voglia che si rinnova continuamente nel fare, sempre più matura in Benetti. Un cercar di capire e trasmettere all'infinito le atmosfere cangianti nel tempo, nell'apparente immobilità dei paesi e sempre realtà fatta colore. Capire la motilità della montagna.
Gli acquerelli: una tecnica per la quale ho fatto una domanda precisa al pittore ed egli mi ha risposto di no, che nessun giovane ha mai tentato un qualsiasi approccio. "Oggi" dice Benetti "il giovane è molto più preparato ed è molto più completo per quanto riguarda la tecnica del disegno. Gli anni non passano invano e vi sono meno incertezze nel segno perché c'è maggiore preparazione culturale, maggiore benessere e le due cose hanno permesso una maggiore serenità nell'avvicinarsi al mondo dell'arte. Manca forse il gusto di proseguire e scavare nella ricerca con calma... c'è anche molto pragmatismo e desiderio di realizzare finanziariamente subito.
Trattandosi però di giovani è prematuro tirare anche delle conclusioni.. "Chi ci parla, oltre che pittore è scultore e rimarca una certa mancanza di senso plastico e del volume nel lavori dei giovani. Mi sembra che l'osservazione sia giustificata dato che, in Valtellina permane un'acuta diffidenza di fondo a scambiarsi esperienze tra artisti. Da noi, uno rischia di sbagliare o ripetere gli sbagli per anni, prima di avvedersene. Troppo isolamento. Gli entusiasmi che avevano agganciato i giovani più ambiziosi (in senso positivo) fuori della Valle a fare loro, tematiche pittoriche più amplificate rispetto a quelle che la Valtellina sembrava così avara nel dare, si sono molto raffreddati.
Vi sono notevoli ripensamenti, tra i più seri.
Gira e rigira, morte definitivamente le chimere della speculazione intellettuale che quasi mai avevano reale riscontro nell'autentica esperienza dei giovani cervelli artistici locali, un'arte come quella di Benetti sta ricevendo il riconoscimento dell'Onestà.
Riprodurre le angosce di Bacon, presupponeva conoscere anche l'intima personalità ed i problemi del pittore inglese e, copiarlo (male) risultava alla fine una pura esercitazione manuale che, nulla aveva a che fare, con la realtà autenticamente vissuta dal singoli pittori valtellinesi. Se l'arte è trasformazione del reale, tramite il filtro di chi la fa, la Valtellina rimane un'autentica miniera di suggerimenti. Venti anni orsono, ricordo bene, i giovani cercavano di rifare, per non sembrare provinciali, del "fauvismo" che pareva più audace del sommesso impressionismo. Una ruota di tentativi scopiazzatori. Erano stesure bislacche, povere di spirito e di precisione. Oggi no: le manine-miracolo possono permettersi tutto, salvo a possedere un minimo di sincerità e di spirito di "ricerca personale". Che è stile. 0 si torna alle cime asettiche, sterilizzate.
Il decano Benetti attende e ti fa una risatina bonaria. Non ha mai avuto fretta. Ha sempre lavorato, rinnovandosi continuamente sul binari di una materia prima che è ben lontana dall'esaurirsi, ma che sta sotto gli occhi di tutti. Ognuno ne può approfittare. Se poi qualcuno ama la strada del ritratto umano sappia che, nel "campasc" di Benetti c'è anche quello, da sempre...

Ferruccio Scala (1980)



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